Il 13 febbraio si è spento a Milano uno dei più grandi fotografi italiani del dopoguerra. Il post non intende ripercorrere le tappe salienti della sua vita ma i concetti fondamentali, estrapolati da pubblicazioni ed interviste, che al meglio riassumano il pensiero di uno straordinario e profondo fotografo contemporaneo. La sua attività riguardava principalmente l’ architettura ma al centro della sua opera c’erano anche il paesaggio, le persone e i dettagli. Architetto di formazione, dai primi anni Ottanta iniziò un percorso di analisi dello spazio urbano, con particolare attenzione al paesaggio industriale e alle periferie metropolitane, che lo ha portato ad analizzare e documentare centinaia di città in tutto il mondo.
La macchina fotografica la incontrò nel Sessantotto: “Avevo frequentato regolarmente i primi tre anni di architettura, poi mi ero dimenticato di fare il rinvio e così ero finito a fare il militare a Torino, fante alla caserma Cavour. C’era un clima insopportabile ma quando mi congedai fuori il mondo era completamente cambiato. All’Università non si disegnava più perché sui tavoli ci si sedeva, erano scomparse le attività grafiche e tecniche e si facevano continue manifestazioni. Mi trovai con una macchina fotografica in mano e pensai che quello poteva essere il mio modo di testimoniare e partecipare al cambiamento, ma i cortei mi stufarono in fretta. La fotografia però mi piaceva sempre di più, cominciai a specializzarmi in edifici, interni, design e presto mi resi conto che potevo guadagnare di più così che facendo i disegni negli studi di architettura”.
Nel 1978 aprì uno studio e la sua tecnica cominciò a formarsi quando iniziò a catalogare le aree dismesse di Milano. Da quel momento diventa il fotografo dello spazio urbano, dotato di una capacità di vedere che culminerà a Beirut nel 1991, quando testimonia gli effetti della guerra civile: “Era tutto abbandonato, completamente silenzioso, mi muovevo tra le macerie e non riuscivo a trovare un modo di fotografare, non sapevo da dove cominciare in mezzo a tutta quella distruzione. Poi uno scrittore che mi accompagnava mi portò sulla terrazza dell’hotel Hilton e mi disse: “Cosa vedi?”. “Una città distrutta”, risposi. “Guarda meglio, ancora più lontano”. Sullo sfondo c’era del fumo, dei panni stesi, cose vive. Allora mi disse: “Non è una città morta ma ferita, ancora viva, scendi e fotografa questo. Da quel momento sono entrato in una vertigine e ho fatto seicento foto di grande formato in un mese”
Dopo questa opera impegnativa dal punto di vista artistico e umano Basilico non si fermò più e non si credette mai “arrivato”, perché il suo lavoro è costituito necessariamente da un divenire di eventi che segnano la realtà. Per questi motivi si chiedeva spesso che tipo di fotografo fosse e questa è la sua definizione:
"Che fotografo sono? Sono un misuratore di spazi: arrivo in un luogo e mi sposto come un rabdomante alla ricerca del punto di vista. Cammino avanti e indietro, la cosa importante è cercare la misura giusta tra me, l’occhio e lo spazio. L’azione fondamentale è lo sguardo, la foto è la memoria tecnica fissata di questo sguardo. ma c’è bisogno di tempo, la foto d’eccellenza è contemplativa".
Quando recentemente gli è stato chiesto cosa gli sarebbe piaciuto fotografare ancora, ha risposto: "I porti. Tutte le città del mondo sono ormai fotografate e allora vorrei ricominciare dai porti. Sono i luoghi in cui la natura e l’architettura si integrano e si contrastano: ci sono le mie strutture industriali, ma non su uno sfondo piatto, ma sul mare e sul cielo. Questa è la perfezione"
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